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Ue/Italia/Libia: le dispute sui salvataggi mettono vite a rischio

Si permettano i salvataggi europei, si trovi un accordo su sbarchi sicuri

L’equipaggio di SOS MEDITERRANEE durante il soccorso di un gommone sovraccarico nel Mediterraneo, 9 giugno 2018.  © 2018 Kenny Karpov/SOS MEDITERRANEE

(Milano) – L'ostruzione dell’Unione europea ai soccorsi di Ong e il trasferimento di responsabilità alle forze della guardia costiera libica, costituiscono una ricetta per una perdita di vite umane ancora più grande nel Mediterraneo e per un ciclo continuo di abusi per le persone intrappolate in Libia, ha detto oggi Human Rights Watch.

"Gli sforzi dell'Ue nel bloccare soccorsi, e le esitazioni su dove far sbarcare le persone tratte in salvo, sotto la spinta della linea dura e senza cuore dell'Italia, stanno portando a più morti in mare e a maggiori sofferenze in Libia" ha detto Judith Sunderland, direttore associato per Europa e Asia centrale a Human Rights Watch. “Invece di scoraggiare i soccorsi di organizzazioni non-governative, imbarcazioni commerciali, e persino navi militari, gli stati membri dell'Ue e le istituzioni dovrebbero assicurare che le persone tratte in salvo possano sbarcare in porti sicuri andando incontro al loro bisogno di protezione."  

In una visita in Libia ai primi di luglio, Human Rights Watch ha intervistato le forze della guardia costiera libica, decine di rifugiati e migranti detenuti in centri a Tripoli, Zuara e Misurata, e funzionari di organizzazioni internazionali. I richiedenti asilo detenuti e i migranti intervistati hanno espresso gravi accuse di abusi da parte delle guardie e dei trafficanti, e alcuni hanno riferito di comportamenti aggressivi da parte delle forze della guardie costiera durante le operazioni di salvataggio in mare. Human Rights Watch ha confermato che le forze della guardia costiera libica mancano della capacità di assicurare operazioni di ricerca e soccorso sicure ed efficaci.

Da quando il suo governo è salito al potere ai primi di giugno, il vice-premier e ministro dell'interno italiano, Matteo Salvini, ha portato avanti una campagna contro le organizzazioni di soccorso non-governative attive nel Mediterraneo, e ha rifiutato o ritardato lo sbarco in Italia di centinaia di persone vulnerabili tratte in salvo in mare, comprese quelle soccorse da navi militari e imbarcazioni commerciali. Il 23 luglio, il governo italiano ha annunciato che avrebbe permesso alle navi militari impegnate in EUNAVFOR MED, l'operazione dell'Ue contro il traffico di migranti, di sbarcare in Italia per cinque settimane durante le quali si sarebbe rinegoziato il piano operativo della missione.

Nelle ultime settimane, solo il gruppo spagnolo Proactiva ha pattugliato le acque internazionali al largo della costa libica. Tutte le altre organizzazioni di soccorso sono bloccate in porti italiani e maltesi per via di azioni legali, o stanno pianificando nuove procedure operative data l'incertezza sul coordinamento dei soccorsi e le procedure di sbarco. Il rischio che le loro imbarcazioni possano essere sequestrate, o che possano subire azioni penali o perdite finanziare a causa di sbarchi ritardati, rischia di scoraggiare le imbarcazioni commerciali dal prestare soccorso in mare, nonostante ce ne sia sempre più bisogno. 

Due gommoni gonfiabili utilizzati da forze della guardia costiera libica per intercettamenti e soccorsi a Sabratha, 65km a ovest della capitale Tripoli, luglio 2018. © 2018 Human Rights Watch

Il bilancio dei morti nel Mediterraneo centrale (tra la Libia e la Tunisia, e tra l'Italia e Malta), è balzato alle stelle nonostante il numero di partenze dalla Libia sia precipitato. Solo a giugno, circa 600 persone sono morte o sono state dichiarate disperse, portando il bilancio totale dal 1 gennaio ad oltre 1.100 morti. Secondo l'UNCHR, l'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, il bilancio delle morti a giugno era pari a 1 su ogni 7 persone che avessero tentato il viaggio, contro il rapporto di 1 a 19 nei mesi precedenti del 2019, e quello di 1 a 38 nei primi sei mesi del 2017.

Josefa, una donna del Cameroon, appena dopo essere stata soccorsa da un gommone distrutto nel Mediterraneo da parte del gruppo spagnolo Proactiva, 17 luglio 2018. L’organizzazione ha anche recuperato due cadaveri di una donna e un bambino. © 2018 Proactiva
Il 21 luglio, la Proactiva ha attraccato a Palma de Mallorca, in Spagna, con due cadaveri, una donna e un bambino, e una sopravvissuta che avevano trovato su un gommone distrutto a 80 miglia nautiche dalla costa libica. L'organizzazione ha accusato le forze della guardia costiera libica di averi lasciati morire dopo aver trasbordato gli altri passeggeri, riportandoli in Libia. Le autorità libiche respingono le accuse.

Il fallimento degli stati membri dell'Ue nell'assicurare un'adeguata capacità di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale è contrario allo spirito del diritto del mare e può, in alcune circostanze, dare adito a responsabilità per morti prevenibili e per dirette infrazioni al divieto di refoulement il respingimento verso rischio di persecuzione, tortura, o maltrattamento, ha detto Human Rights Watch.

Consentire alle unità della guardia costiera libica di intercettare persone in acque internazionali, quando è risaputo che la guardia costiera li rinvia verso una detenzione arbitraria in Libia esponendole a trattamento crudele, inumano, o degradante, condizioni ampiamente documentate, può costituire favoreggiamento di serie violazioni dei diritti umani. Allo stesso modo, facilitare l’intercettamento e il rinvio forzato in Libia di migranti in cerca di protezione vìola il diritto internazionale dei rifugiati poiché la Libia non aderisce alla Convenzione sui rifugiati del 1951 e non ha una legge o procedure sul diritto di asilo. Questo significa che i migranti respinti non hanno un rimedio efficace per soddisfare il bisogno di protezione.

Con una mossa deplorevole, l’Organizzazione marittima internazionale (IMO), un’agenzia dell’Onu, ha ufficialmente riconosciuto, a giugno, la dichiarazione da parte della Libia di una vasta regione ricerca e soccorso (SAR). Nonostante la capacità limitata delle forze della guardia costiera libiche, e il destino ben noto di quanti vi vengano rinviati, l’Italia si è assicurata un sostegno esplicito da parte dei capi di stato dell’Eu per la sua pratica, testata già almeno dal maggio 2017, di trasferire la responsabilità a tali forze persino in acque internazionali.   

Il numero di persone detenute in Libia è aumentato per via di crescenti intercettamenti da parte delle forze della guardia costiera libica. Il brigadiere generale Mohamed Bishr, a capo del direttorato sull’immigrazione illegale, ha detto a Human Rights Watch il 12 luglio che 8.672 persone erano in centri di detenzione ufficiali, dai 5.200 di maggio. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni stima che vi siano 9.300 persone in centri di detenzione ufficiali in Libia. Non ci sono cifre disponibili riguardo persone tenute in centri di detenzione informali gestiti da gruppi armati e trafficanti di esseri umani.

Una donna giace per terra su un materasso nel centro di detenzione di Tajoura, Tripoli, 8 luglio 2018. 

I leader e le istituzioni dell’Ue dovrebbero rifiutare univocamente l’appello di Salvini a “cambiare le norme” per dare alla Libia la designazione di luogo sicuro dove accettare rifugiati e migranti, ha detto Human Rights Watch. Dato l’attuale trattamento dei migranti da parte della Libia, una tale designazione equivarrebbe a una negazione della realtà. L’UNHCR dovrebbe aggiornare il proprio appello del 2015, esteso a tutti i Paesi, di “consentire ai civili in fuga dalla Libia (cittadini libici, residenti abituali della Libia, e cittadini di Paesi terzi) di entrare nei propri territori.”

Gli stati membri dell’Ue dovrebbero agire con urgenza per proteggere la vita in mare e adottare rapidamente misure per assicurare sbarchi in condizioni prevedibili e in posti sicuri, ha detto Human Rights Watch. Dovrebbero sostenere, non ostruire, le operazioni di soccorso di gruppi non-governativi, e assicurare un’adeguata presenza di navi equipaggiate e pronte a rispondere ad imbarcazioni in pericolo. 

Fino a che le autorità libiche non avranno posto fine a detenzioni arbitrarie, dimostrato miglioramenti sostenuti e significativi delle condizioni e del trattamento nei centri di detenzione, e non avranno una sufficiente capacità di svolgere in autonomia le proprie responsabilità di ricerca e soccorso, gli stati membri dell’Ue dovrebbero riprendere a svolgere questi compiti nelle acque internazionali al largo della Libia, compresa l’area che la Libia ha dichiarato come sua regione di ricerca e soccorso.

I Paesi dell’Ue dovrebbero raggiungere urgentemente un accordo regionale sugli sbarchi, comprensivo di garanzie contro la detenzione automatica delle persone tratte in salvo, far sì che queste sbarchino in porti sicuri e siano ricollocate rapidamente in un altro Paese dell’Ue che si assuma la responsabilità di svolgere le formalità legali.

Un tale accordo è critico per salvaguardare tutti gli sforzi nelle operazioni di salvataggio, compresi quelli di imbarcazioni non-governative e commerciali, e per evitare le ricorrenti dispute sugli sbarchi. I Paesi dell’Ue e la Commissione europea dovrebbe esercitare pressione sull’Italia e Malta, i Paesi più vicini all’area critica di ricerca e soccorso, affinché acconsentano a sbarchi solleciti. 

Al di là delle situazioni di emergenza, il trasferimento di persone tratte in salvo in un Paese al di fuori dell’Ue andrebbe preso in considerazione solo in presenza di alcune condizioni chiave, ha dichiarato Human Rights Watch. Queste comprendono, come minimo, garanzie procedurali contro la detenzione arbitraria e il refoulement, accesso a una procedura d’asilo giusta ed efficace, e procedure di deportazione eque per coloro che non hanno un titolo valido per rimanere. Nessun Paese al di fuori dell’Ue ha segnalato la disponibilità ad entrare in alcun accordo formale sugli sbarchi. 

Le autorità libiche dovrebbero adottare procedure operative standard chiare e prevedibili per il coordinamento delle operazioni di soccorso da parte di imbarcazioni commerciali, non-governative o di ogni altro tipo, in acque internazionali o all’interno di quella che la Libia considera la propria regione di ricerca e soccorso in acque internazionali, ha detto Human Rights Watch. Le forze della guardia costiera libica possono e dovrebbero svolgere un ruolo vitale nell’assicurare una risposta celere alle imbarcazioni in pericolo, e nell’organizzare uno sbarco sicuro fuori dalla Libia.

“Il ministro dell’interno italiano ha ragione nel sottolineare l’ipocrisia sottostante all’addestramento e all’approvvigionamento delle forze della guardia costiera libica, quando la Libia non offre un porto sicuro” ha detto Sunderland. “Ma per quanto ci si voglia fare pie illusioni, per un lungo tempo a venire la Libia non sarà un porto sicuro dove portare rifugiati e migranti tratti in salvo in mare.”

Sostegno di Italia e Ue alle forze della guardia costiera libica

Migranti su una nave della guardia costiera libica nel Mediterraneo al largo della Libia, 15 gennaio, 2018.  © 2018 Hani Amara/Reuters


L’Italia ha preso l’iniziativa all’interno dell’Ue per sviluppare la capacità delle autorità libiche nell’assicurare i confini del Paese e pattugliare il Mediterraneo. Nel febbraio 2017, l’Italia firmò un memorandum d’intesa con il governo libico di accordo nazionale sul controllo dei flussi migratori. Da allora, l’Italia ha consegnato quattro motovedette, come previsto da un accordo del 2008, e ha promesso di consegnare altre due grandi navi così come trenta Zodiac (motoscafi di gomma) entro ottobre.  L’Italia sta anche portando avanti un progetto finanziato dall’Ue per assistere la Libia nell’allestimento un centro di coordinamento di soccorso marittimo (MRCC), che ci si aspetta entrerà in funzione nel 2020.  

Nel frattempo, un sala di controllo libica è stata allestita a bordo di una nave della marina italiana nel porto di Tripoli. In un incontro con Human Rights Watch, il colonnello Abu Ajeila Ammar, capo delle operazioni di ricerca e soccorso della guardia costiera libica, ha dichiarato: “Ci coordiniamo con i MRCC di Roma e Malta, e la sala di controllo ha lo scopo di migliorare la cooperazione.”  

A giugno, l’Organizzazione marittima internazionale (IMO) ha ufficialmente riconosciuto la dichiarazione, da parte della Libia, di una vasta regione di ricerca e soccorso (SAR). I capi di stato dell’Ue hanno rilasciato un comunicato a fine giugno che richiama tutte le imbarcazioni nel Mediterraneo  “a non interferire con le operazioni della guardia costiera libica.” È deplorevole che l’IMO, un’agenzia dell’Onu, abbia riconosciuto alle forze libiche l’autorità di prendersi la responsabilità delle operazioni di salvataggio nonostante i timori sulle sue capacità e sul destino di quanti vengono inviati in Libia, ha dichiarato Human Rights Watch.

Il Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo italiano (IMRCC) ha stabilito una pratica, testata almeno dal maggio 2017, di trasferire la responsabilità alle forze della guardia costiera libica in acque internazionali persino quando altre imbarcazioni meglio equipaggiate, compresi i propri pattugliatori o le navi della marina italiana, sono più vicine alla scena.  

L’operazione anti-scafisti dell’Ue EUNAVFOR MED (conosciuta anche come Operazione Sophia) comprende un programma di addestramento, avviato nell’ottobre 2017, per ufficiali della marina e della guardia costiera libica, sottoufficiali di marina e marinai sotto il controllo del ministero della difesa del governo libico di accordo nazionale.

Entro giugno, 213 membri di guardia costiera e marina libiche avevono partecipato a corsi di addestramento, stando a una presentazione di EUNAVORFOR MED a cui ha partecipato Human Rights Watch. EUNAVFOR MED dovrebbe intensificare il monitoraggio delle operazioni delle unità della guardia costiera libica, comprese quelle non addestrate dall’Ue, e pubblicare con regolarità quanto riscontrato. 

Secondo alcuni resoconti giornalistici, EUNAVFOR MED ha messo in pausa le operazioni data l’incertezza riguardante la capacità di portare in Italia le persone tratte in salvo, come previsto nel piano operativo. Dall’avvio dell’operazione nel 2015, alle navi partecipanti va attribuito il salvataggio di oltre 49.000 persone.  

La guardia costiera che risponde al governo di accordo nazionale non ha ancora un centro di coordinamento marittimo pienamente funzionante, e la sala di controllo esistente non garantisce una copertura continua o una risposta rapida in ogni situazione d’emergenza. In un rapporto trapelato a febbraio, EUNAVFOR MED ha citato una “situazione infrastrutturale critica” all’interno della sala operativa, limitate capacità linguistiche e informatiche tra il personale, e carenza di carburante ed equipaggiamento. Il rapporto concludeva che “la mancanza di sistemi di comunicazione efficaci ed affidabili ostacola anche il minimo livello di esecuzione di comando e controllo, compreso quello necessario per coordinare episodi SAR/SOLAS”.

Le forze della guardia costiera libica fanno ampio ricorso alla capacità di sorveglianza e all’assistenza italiana (e maltese). Le unità libiche hanno navi inadeguate e insufficienti, problemi di manutenzione cronici, e carenze di carburante che limitano la loro capacità di pattugliare persino le acque territoriali libiche e di raggiungere velocemente navi in difficoltà, stando a informazioni ottenute attraverso interviste, realizzate a luglio, con forze della guardia costiera libica a Tripoli e Sabratha.

Il colonnello Ajeila Ammar ha detto a Human Rights Watch che la guardia costiera è in grado di coordinare e soccorrere grandi quantità di persone nonostante i “mezzi limitati”. Ha detto, tuttavia, che “le navi che abbiamo a disposizione al momento non si prestano a operazioni SAR… quello che ci serve sono delle navi SAR vere e proprie, queste sono più grandi, hanno maggiori capacità e garantiscono la protezione nella ‘zona calda' [l’area tra Misurata e Zuara].”   

Benché il colonnello Ajeila Ammar abbia detto che la guardia costiera conduca pattugliamenti quotidiani nella ‘zona calda’, il capitano Ayman Al-Dabbashi, comandante della guardia costiera libica a Sabratha, ha detto a Human Rights Watch che la sua unità può pattugliare solo fino a cinque miglia dalla costa per via della carenza di carburante. “Non c’è coordinamento tra nessuno dei punti della guardia costiera [sulla costa occidentale],” ha dichiarato. “Ognuno è indipendente.”

Nonostante tali limiti, sembra che il centro di soccorso marittimo italiano, ormai con regolarità, dia istruzioni alle navi in difficoltà e a potenziali imbarcazioni di soccorso di rivolgersi alla guardia costiera libica e di rimettersi alle sue istruzioni. Ciò ha portato a ritardi nei soccorsi, con le autorità libiche che richiedevano ai gruppi non-governativi e a navi commerciali di aspettare sul luogo fino a che un pattugliatore libico potesse arrivare. Ha anche determinato situazioni pericolose in cui delle persone, in preda al panico, si sono gettate in acque cercando di raggiungere a nuoto un’imbarcazione europea.

In un’intervista con Human Rights Watch, il brigadiere generale Abdullah Toumiyeh, comandante della guardia costiera libica, ha giustamente sottolineato che “la priorità… è salvare vite. Se la nave di una Ong è più vicina, allora dovrebbe prestare soccorso, tuttavia le [Ong] devono coordinarsi con… la guardia costiera libica.”

Resoconti di richiedenti asilo e migranti

I resoconti di richiedenti asilo e migranti intercettati suggeriscono che le unità della guardia costiera libica intervengano anche in presenza di altre imbarcazioni nei paraggi.

“Ododo,” 31 anni, nigeriano, ha detto di aver passato, con altre cento persone, otto ore a bordo di un gommone il 24 giugno: “Abbiamo visto una nave di soccorso bianchissima, e c’era un aereo che sorvolava con una bandiera spagnola. Ma poi la nave libica è arrivata molto velocemente. Hanno gettato una corda ma gli abbiamo detto che non volevamo tornare indietro. Hanno insistito. Abbiamo dovuto obbedire per salvarci.”
Il resoconto di un'altra donna nigeriana, “Ifedayo,” intervistata separatamente, è molto simile: “Siamo partiti una settimana e un giorno fa,” ha raccontato il 2 luglio. “Abbiamo visto la grande nave bianca, poi la nave libica è arrivata velocemente e ci ha bloccati, [abbiamo detto] siamo così vicini, lasciateci andare. Ma hanno detto di no.”  

“Emmanuel,” un sedicenne della Sierra Leone, ha detto di essere partito su di un gommone sovraccarico da Garabulli il 10 maggio. I passeggeri hanno passato sedici ore in mare prima di vedere quella che ha descritto come una nave “grande, bianca e nera” che credevano fosse europea. “Ma arrivarono i libici e colpirono la nostra nave con la loro. Cominciammo ad affondare. Ci gettarono una corda perché potessimo salire sul loro pattugliatore. C’erano donne incinte, anche loro dovettero usare la corda. Tutti si litigavano la corda. Una volta a bordo non ci diedero niente, né acqua, né cibo o giubbotti di salvataggio.”

Alcuni, come “Nala,” 23, della Somalia, hanno espresso un miscuglio di costernazione e gratitudine sul soccorso ricevuto da parte della guardia costiera libica. “Abbiamo passato circa cinque ore sulla nave. Aveva cominciato ad affondare e alcuni ragazzi hanno chiamato aiuto. Arrivarono i libici. Perdemmo le speranze quando vedemmo i libici perché sappiamo che si può rimanere in un posto come questo [un centro di detenzione] per anni, ma eravamo molto contenti che ci avessero salvato.”

“Joanna,” una madre di tre bambini di 34 anni proveniente dal Camerun, racconta che, una volta attraversata "la line internazionale", dopo dieci ora di navigazione, con la barca su cui era a bordo, ai primi di giugno, insieme ad altre 170 persone, videro un piccolo aereo bianco girargli intorno, ma non chiamarono la guardia costiera italiana perché avevano paura che gli italiani avrebbero mandato la guardia costiera libica a prenderli e riportarli in Libia.

“La grande nave libica arrivò un’ora dopo che vedemmo l’aereo” ha detto. “Ci gettarono una corda e all’inizio ci rifiutammo di annodarla alla nostra barca. I libici spararono in aria minacciandoci: ‘Se non l’annodate, vi spariamo.’ Allora l’annodammo alla nostra barca e cominciarono a farci trasbordare.”

“Ahmed,” 26 anni, un palestinese di Gaza, ha detto di aver fatto un secondo tentativo per raggiungere l’Europa a maggio. “Dopo undici ore in mare, intravedemmo un grande nave arancione. Chiamammo gli italiani con un Thuraya [telefono satellitare], la nave aveva già cominciato a mettere in acqua i suoi motoscafi per venirci a soccorrere. Ma prima che potessero avvicinarsi, i libici arrivarono da dietro e così la nave straniera si fermò e non si avvicinò una volta che videro i libici. Alcuni saltarono giù dalla nostra barca e cominciarono a nuotare verso la grande nave. Quelli rimasti si rifiutarono di salire a bordo della nave libica.

“A questo punto due dei tre libici a bordo della grande nave di salvataggio, uno dei quali era della guardia costiera, due con uniforme militare, spararono in acqua vicino a dove eravamo. Arrivarono anche molto vicino alla nostra barca e cominciarono ad alzare onde per spaventarci. La gente si impaurì e finalmente cominciò a salire sulla loro nave. Ci portarono a Khoms,” ha raccontato Ahmed.

Questo potrebbe essere lo stesso episodio riportato da SOS MEDITERRANEE, la cui nave di soccorso, Aquarius, è bianca ed arancione, e da dove l’equipaggio vide varie persone, il 7 maggio, saltare in acqua. Il gruppo di soccorso ha detto che la guardia costiera libica declinò le loro ripetute offerte di assistenza e ordinò alla nave di abbandonare l’area.  

Ostruzione e criminalizzazione di gruppi di soccorso non-governativi

A partire dal 2014, varie organizzazioni non-governative hanno svolto operazioni vitali di ricerca e soccorso in acque internazionali al largo della Libia dove molte imbarcazioni, sovraccariche e inadatte alla navigazione, si trovano in difficoltà. Secondo statistiche italiane ufficiali, gruppi non-governativi hanno prestato all’incirca il 40 per cento di tutti i soccorsi nel Mediterraneo centrale nel 2017 e nei primi cinque mesi del 2018, per un totale di 51.569 persone.

Una campagna concertata da alcuni politici e funzionari italiani nel 2017, e la volatile situazione di sicurezza nel Mediterraneo, ha portato molti gruppi, tra cui Save the Children e  Migrant Offshore Aid Station (MOAS), a sospendere le proprie operazioni. Il parlamento italiano ha condotto due indagini separate nel 2017, senza trovare alcuna prova di illeciti da parte delle organizzazioni di soccorso non-governative. I rappresentanti della guardia costiera italiana e della marina hanno detto che all’epoca questi gruppi erano molto collaborativi.

Ciononostante, tutte le organizzazioni di soccorso non-governative attualmente in grado di prestare soccorso si misurano con battaglie legali o restrizioni da parte delle autorità italiane o maltesi. Venti persone legate al gruppo tedesco di Jugend Rettet, a Save the Children, e a Médecins sans Frontières (MSF) sono coinvolte in un’indagine contro Jugend Rettet, condotta da un pubblico ministero siciliano, per presunta collusione con gli scafisti. La loro imbarcazione è stata sequestrata nel 2017.

Due membri dell’equipaggio della Proactiva sono oggetto di un’indagine in Sicilia dopo che la nave del gruppo Open Arms ha rifiutato di consegnare a un pattugliatore libico delle persone tratte in salvo in acque internazionali nel marzo 2017. La barca fu sequestrata e poi rilasciata.

A giugno, le autorità giudiziarie di Malta hanno sequestrato l’imbarcazione del gruppo tedesco Mission Lifeline, e hanno avviato un’indagine sul capitano, dopo che era stato permesso al gruppo di attraccare con 234 persone in seguito a uno stallo di cinque giorni. A luglio, Malta ha impedito ad altre due organizzazioni tedesche di soccorso, Sea-Watch e Seefuchs, di lasciare il porto, e ha messo a terra Moonbird, un aereo di ricognizione civile che ha assistito nell’individuazione e il successivo soccorso di navi di migranti.

Uomini tratti in salvo sbarcano a Valencia, in Spagna, dopo aver passato oltre una settimana sulla nave Aquarius di SOS MEDITERRANEE/MSF. L’Italia e Malta avevano rifiutato alla nave il permesso di attraccare. 17 luglio 2018.  © 2018 Kenny Karpov/SOS MEDITERRANEE
  
L’Aquarius, gestita congiuntamente da SOS MEDITERRANEE e MSF, ai primi di giugno era stata forzata a dirottare, con oltre 600 persone a bordo, su Valencia, in Spagna, dopo essersi vista negare il permesso di attraccare di Italia e Malta. Successivamente, Malta ha negato all'Aquarius di fare scalo, e l'Aquarius è rimasta a ormeggiare a Marsiglia da metà giugno.    

Il lavoro preparatorio che ha preceduto gli sforzi per ostruire i soccorsi di gruppi non governativi fu realizzato nel 2017, quando l'Italia impose su di loro un "codice di condotta." Nel 2018, tutti i capi di Stato dell'Ue hanno approvato una dichiarazione che, di fatto, mette in guardia questi gruppi dall'"ostruire... la guardia costiera libica." A luglio, il presidente della Commissione europea ha dato un'altra bordata ai gruppi non-governativi, dicendo che nessuno "dovrebbe contribuire a mantenere in vita il modello di attività a cui ricorrono i passatori e i trafficanti di esseri umani per sfruttare le miserie umane."  

Studi statistici hanno sfatato il mito secondo il quale i soccorsi prestati da questi gruppi incoraggino a tentare il viaggio via mare, dimostrando che i numeri delle partenze sono stabili o persino maggiori in periodi in cui le navi di soccorso sono impegnate in aree troppo vaste, o del tutto assenti.

Il fardello sulla navigazione commerciale

Le attuali dinamiche nel Mediterraneo centrale possono condurre a un fardello sempre più pesante a carico delle navi commerciali nella risposta a imbarcazioni in difficoltà, in un periodo di notevole incertezza riguardo gli sbarchi.    

In almeno due casi recenti, il centro italiano per i soccorsi marittimi ha comunicato a navi commerciali di contattare le forze della guardia costiera libica per istruzioni. Il 30 giugno, il centro ha dirottato la nave commerciale Sedef per andare incontro a un'imbarcazione in difficoltà all'interno delle acque territoriali libiche, e successivamente ha comunicato alla nave di dover contattare la guardia costiera libica per organizzare un trasferimento o uno sbarco. Un rappresentante di Kasif Denizcilik, la società Turca proprietaria della Sedef, raggiunto per telefono da Human Rights Watch, ha detto che il trasferimento delle 115 persone tratte in salvo a un pattugliatore libico si è svolto senza incidenti il 1 luglio.

Dopo che l'equipaggio della Vos Thalassa, una rimorchiatore a servizio di piattaforme petrolifere, ha riferito al centro italiano per soccorso marittimo di aver tratto in salvo 67 persone in acque internazionali l'8 luglio, le autorità italiane hanno dato istruzione di incontrarsi con un pattugliatore libico, dando loro la posizione, per effettuare un trasferimento.

Il piano è stato annullato quando l'equipaggio ha riferito di andare incontro a proteste e persino minacce una volta che le persone tratte in salvo avevano realizzato che si dirigevano verso la costa libica. Alla fine sono stati portati tutti in Italia, dove due degli uomini tratti in salvo sono stati accusati per violenza, minacce, e associazione a delinquere per facilitamento di immigrazione clandestina.  

Quaranta persone tratte in salvo il 15 luglio dalla Sarost 5, un'imbarcazione di bandiera tunisina, rimangono a bordo con Tunisia, Italia, e Malta che negano lo sbarco alla nave.

“Dobbiamo assicurarci che le navi possano continuare ad adempiere all'obbligo di prestare soccorso senza difficoltà ingiustificate o senza rischi per gli equipaggi" ha detto in un'intervista telefonica John Stawpert, della Camera di commercio internazionale, a Human Rights Watch.

Tutto il settore della navigazione, compresi gli stati di bandiera - i Paesi dove sono registrate le navi - e i sindacati dei marittimi, dovrebbero considerare l'uso della propria influenza per fare pressioni sugli stati membri dell'Ue e sulla Libia affinché acconsentano a un coordinamento europeo delle operazioni di soccorso che coinvolgono navi commerciali in acque internazionali, ha detto Human Rights Watch.

Diritto del mare

Il sostegno da parte di Italia, Malta, o qualsiasi altro Paese dell'Ue nel coordinare gli intercettamenti o i soccorsi che risultino nel rinvio di rifugiati e migranti in Libia solleva complesse questioni legali. Tutte le navi sono obbligate, ad accorrere in aiuto di imbarcazioni in difficoltà e a portare coloro che sono stati tratti in salvo in quello che, secondo il diritto marittimo, è considerato un posto sicuro. Un coordinamento efficace tra stati costali e tutte le navi in mare è al cuore del regime globale di ricerca e soccorso, ed è vitale per salvaguardare la vita in mare.

Allo stesso tempo, le attuali condizioni in Libia implicano che questo Paese non si possa considerare un posto sicuro. Inoltre, con l'agevolazione di intercettamenti da parte della Libia di rifugiati e migranti in mare che risulti determinante nel rinvio di queste persone a condizioni di detenzione abusiva in Libia, si profila un favoreggiamento di gravi violazioni dei diritti umani. L'Ue e i suoi stati membri sono consapevoli delle prevedibili violazioni a cui sono esposti i migranti al loro ritorno, e sanno che tali violazioni infrangono obblighi legali sia dell'Ue che della Libia.   

Il Comitato dei diritti dell'uomo delle Nazioni Unite, che supervisiona l'attuazione della Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, (ICCPR), ha concluso che “uno stato parte [dell'ICCPR] può essere responsabile di violazioni extraterritoriali della Convenzione se costituisce un anello di congiunzione nella concatenazione che rende possibili delle violazioni in un'altra giurisdizione." Tutti gli stati membri dell'Ue e la Libia aderiscono alla Convenzione. Alla luce di questa giurisprudenza, qualsiasi stato dell'Ue che assiste la Libia nel rinviare persone in Libia potrebbe essere in violazione della convenzione perché il danno a cui sono esposti i migranti in Libia è una "conseguenza prevedibile" sulla base della "conoscenza che lo Stato parte aveva all'epoca".

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