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Persone sedute per terra nel centro di ricezione per migranti sovraffolato a Lampedusa, un’isola italiana nel Mar Mediterrano, il 16 settembre 2023 © 2023 Cecilia Fabiano/LaPresse via AP Photo

Il 20 marzo, l’Italia ospiterà una riunione del Gruppo dei Sette (G7) sull’Africa. In un momento in cui sono urgenti e necessarie iniziative condivise su scala globale per contrastare gli abusi in molti paesi del continente, quest’incontro è un’occasione che non può andare sprecata.

La riunione arriva a seguito di un vertice Italia-Africa organizzato a gennaio, in cui la premier Giorgia Meloni ha proposto un piano strategico per rafforzare le relazioni economiche con i paesi africani e per porre un freno all’immigrazione. Questo progetto tuttavia riserva ben poca attenzione al rispetto dei diritti umani da parte dei governi africani , tra cui figurano alcuni dei  più autoritari del continente, e ignora le crisi umanitarie che affliggono molte regioni.

Se l’Italia vuole davvero promuovere opportunità commerciali in Africa e controllare l’immigrazione illegale, vero chiodo fisso del governo Meloni, dovrebbe insistere perché siano intraprese azioni globali per porre fine agli abusi e all’insicurezza generalizzata che costringe le persone a fuggire. Ma la politica estera italiana sembra andare in tutt’altra direzione.

Mentre gli ambasciatori del G7 si incontrano a Roma, il Corno d’Africa, regione di particolare interesse per via del passato coloniale italiano, è in preda a terribili conflitti, ad una diffusa repressione politica e ad una gravissima carestia che costringe milioni di persone a lasciare il proprio paese, talvolta con l’intento di arrivare in Europa.

Da quasi un anno in Sudan imperversa un violento conflitto.  Le due principali forze militari, le Forze Armate sudanesi (SAF) e le Forze di Supporto Rapido (RSF), hanno ucciso migliaia di civili, violentato donne e ragazze, distrutto le infrastrutture basilari del paese e causato migliaia di sfollati nonché il rischio di una grave carestia. Il G7 dovrebbe denunciare i governi che hanno violato l’embargo sulle armi imposto dal Consiglio di sicurezza dell’ONU in Darfur, dove una delle due parti coinvolte nello scontro, le Forze di Supporto Rapido, si è macchiata di innumerevoli atrocità. Il gruppo di esperti del Consiglio di sicurezza ha dimostrato chiaramente che l’embargo viene ignorato e che le accuse secondo cui gli Emirati Arabi Uniti stanno armando le RSF sono credibili.

I paesi del G7 dovrebbero trovare un accordo ed imporre sanzioni mirate contro i responsabili delle violenze più efferate in Sudan. Gli Stati Uniti hanno già approvato sanzioni contro i comandanti che hanno permesso gli abusi nel Darfur occidentale.  Il Gruppo dei Sette dovrebbe  seguire quest’esempio, colpendo le figure di più alto livello coinvolte nelle violazioni e tutti coloro che impediscono l’arrivo degli aiuti umanitari per gli oltre 25 milioni di persone che ne hanno un disperato bisogno. L’Unione europea e il Regno Unito, ad esempio, finora si sono limitati a sanzionare alcune organizzazioni legate a entrambe le parti in causa.

Per quanto riguarda l’Etiopia, i paesi del G7 hanno accolto con favore la riapertura del dialogo per il cessate il fuoco in Tigrai, ma dovrebbero anche ammettere  pubblicamente che tale dialogo non ha messo fine agli abusi. La pulizia etnica dei Tigrini continua, così come le gravi violazioni da parte delle forze eritree, alleate del governo etiope in questa guerra che dura ormai da due anni. Alla luce della nuova crisi scoppiata nella regione Amara, dove secondo fonti credibili le forze del governo federale hanno giustiziato decine di civili, il G7 dovrebbe alzare la voce e rispondere all’evidente vuoto di responsabilità, ad esempio sanzionando i responsabili della pulizia etnica nel Tigrai occidentale.

Nella regione del Sahel, punto nodale per la partenza e il transito dei migranti e richiedenti asilo che si muovono verso il nord del continente africano e l’Europa, la situazione umanitaria e politica è estremamente precaria, così come lo stato dei diritti umani e della sicurezza. I gruppi armati legati ad Al-Qaeda e allo Stato Islamico intensificano gli attacchi contro i civili, mentre le forze governative commettono abusi sistematici durante le operazioni di contro-terrorismo.

Gli ultimi anni sono stati segnati da atrocità e massacri per mano sia delle forze di sicurezza del Mali, del Burkina Faso e del Niger, che dei gruppi armati jihadisti. L’impunità che vige per tali crimini alimenta  il risentimento, la frustrazione e quindi la violenza. La violenza jihadista si sta espandendo verso i paesi della costa dell’ Africa occidentale, come il Benin, il Ghana, il Togo e la Costa d’Avorio. Dal 2021, nel Sahel si sono susseguiti quattro colpi di stato militari, con le conseguenti violazioni dei diritti civili e politici che gli stati membri del G7 hanno sostanzialmente ignorato.

Per il G7, l’impegno a intervenire nella regione del Sahel per rafforzare la protezione dei civili a rischio, prevenire le violazioni dei diritti umani e promuovere la giustizia dovrebbe essere la priorità. Il Gruppo dovrebbe porre l’adozione di misure efficaci di salvaguardia dei diritti umani in Mali, Burkina Faso e Niger come condizione per riprendere a cooperare con le forze militari della regione in materia di sicurezza. Tra i provvedimenti indispensabili, dovrebbe essere garantito il rispetto del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani nelle operazioni di sicurezza e controllo delle frontiere, verifiche adeguate sulle truppe, un monitoraggio indipendente e pubblico sui diritti umani e l’accesso alla giustizia per le vittime di abusi.

L’Italia, in quanto paese ospitante, dovrebbe affrontare seriamente l’instabilità nella regione del Sahel e dimostrare maggiore umanità nei confronti di migranti e sfollati, facendo valere la propria influenza con il G7 e l’Unione europea affinché definiscano strategie chiare, fondate sui diritti umani e sulla giustizia.

Se l’Italia e gli altri stati membri del G7 continuano a ignorare gli abusi commessi in alcuni paesi africani e non approvano iniziative concrete e comuni, oltre a incoraggiare i regimi più repressivi, rischiano anche di compromettere gli obiettivi che si sono fissati, cedendo le redini a chi preferisce lasciar proliferare l’instabilità e la violenza.

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